L’Iliade e l’Odissea sono i due poemi omerici che chi ha affrontato un percorso di studio classico sicuramente conoscerà, e che narrano rispettivamente  gli eventi accaduti nei cinquantuno giorni dell’ultimo anno di guerra a Troia (dove l’ira di Achille la fa da padrona), e le avventure di Ulisse, il re di Itaca che ha partecipato alla guerra di Troia, che cerca in tutti i modi di ritornare in patria attraversando molte situazioni difficili dalle quali riesce a cavarsela usando l’intelligenza e l’astuzia.

Quello che vogliamo fare ora attraverso questo post, non è analizzare in maniera accademica le due opere di Omero (anche perché chi vi scrive non ha la presunzione di poterlo fare), ma provare ad esplorare il confine tra realtà e finzione nei poemi omerici per scoprire elementi storici sepolti tra i miti di queste due opere. Quello che ci accingiamo a fare non è certo una cosa semplice poiché dovremmo analizzare pile di opere di autori greci, romani e persiani, come il Timeo e il Crizia di Platone (dove tra l’altro il filosofo greco espone anche le sue teorie su Atlantide), l’Agamennone di Eschilio che offre un altro punto di vista sulla guerra di Troia, la Medea di Euripide (la tragica storia di una maga che si innamora del mitico guerriero Giasone), o i grossi volumi delle Storie di Erodoto. Tutto per capire se nel viaggio di Ulisse, sballottato dagli dei, con poco controllo sul proprio destino, ci sia un fondo di verità. Faremo quindi sicuramente degli errori, ne siamo consapevoli…, voi non dovete far altro che prendere tutto quello che state per leggere con le pinze e non per oro colato, e ricordarvi che la storia è tutta nella testa del narratore, ma la verità è nella storia.

Il viaggio di Ulisse inizia dalla costa dorata della Turchia, spostandosi sopra l’Egeo e costeggiando alcune isole, facendo soste qua e là. Lasciato l’Egeo, Ulisse costeggia l’estremità meridionale della Grecia arrivando nello Ionio e qui cominciano i suoi primi veri problemi; il suo equipaggio apre l’otre dei venti consegnatogli da re Eolo durante una delle sue soste, pensando che dentro vi sia dell’oro, e i venti rilasciati allontanano Ulisse e la sua nave da Itaca, la sua destinazione. Ripreso il pieno controllo della sua nave, Ulisse passa lo stretto di Messina dirigendosi verso un arcipelago di isole vulcaniche. A questo punto, secondo la descrizione presente nel poema, Ulisse si ferma a Vulcano.

Certo chiamare un isola dominata da crateri vulcanici Vulcano, non sembra denotare poi tanta immaginazione, ma in realtà quest’isola non prende il nome dai suoi vulcani, ma da Vulcano, il dio romano del fuoco. Lo stesso dio che i greci chiamavano Efesto. Gli antichi greci chiamavano quest’isola Thérmessa, che vuol dire “terra del calore”, ma storici greci la indicano anche come Hiera di Efesto, che si può tradurre con “sacro luogo di Efesto” o, a seconda del contesto, anche come “sacro fuoco”. Vi è da dire che da Vulcano spesso si possono ammirare tramonti così accesi che sembra che l’isola stia andando a fuoco, e probabilmente anche per questo i greci erano convinti che vi dimorasse Efesto.

I greci credevano che proprio su quell’isola, nelle sue viscere, Efesto avesse realizzato le armi per Ares, il dio della guerra, martellando il ferro forgiato nel suo fuoco, e che le periodiche esplosioni di fumo e cenere del vulcano fossero dovute al potente fabbro che puliva le sue canne fumarie.

Insomma l’isola di Vulcano, era sede della mitica forgia del dio Efesto. In realtà, l’attività vulcanica dell’isola si deve alla placca tettonica africana che spinge contro quella euroasiatica. Tutto questo ci porta a dedurre che l’isola descritta da Omero esiste veramente, ed è proprio quella che si trova a largo della costa siciliana. Ma la prova regina ci è data dalla Geografia , un trattato di duemila pagine ad opera dello storico greco Strabone.

Quest’ultimo non solo ammirava Omero per il suo stile, ma era anche convinto che l’Iliade e l’Odissea si basassero su fatti realmente accaduti e dunque si mise alla ricerca di prove a sostegno della sua tesi, che poi raccolse appunto nella Geografia. Piccola curiosità: Omero fa spesso riferimento alle creazioni di Efesto, descrivendo meraviglie come cavalli di bronzo in grado di trainare carri, un’aquila dalle ali metalliche che Zeus aveva mandato a torturare Prometeo reo di avergli rubato il fuoco, piccoli treppiedi muniti di ruote che si muovevano per conto loro e obbedivano a ogni comando del loro padrone e addirittura “ancelle d’oro che sembravano vive“, quindi automi, donne meccaniche che facevano tutto ciò che il dio chiedeva loro. Devo ammettere che non mi dispiacerebbe averne un paio. Salpando dall’isola di Vulcano, Ulisse attraversa il Mar Tirreno spingendosi fino in Sardegna.

Perché siamo sicuri che si tratti proprio di quest’isola? Perché nei suoi racconti Omero ci dice che uno dei porti in cui Ulisse cerca di attraccare è l’isola dei lestrigoni, ma i giganti antropofagi che vi dimorano scagliano massi enormi contro la sua flotta, affondando tutte le navi tranne quella con a bordo l’eroe. Questo cosa a che fare con la Sardegna? Ce lo spiega Tolomeo, il geografo romano vissuto nel I secolo.

Come Strabone, anche Tolomeo ha scritto un testo intitolato Geografia, e in quest’opera menziona una tribù che occupava la Sardegna nordoccidentale, denominata per l’appunto lestrigoni.

Inoltre sulla costa occidentale della Sardegna sorgevano antiche statue di giganti che, secondo la leggenda, proteggevano l’isola scagliando massi contro le navi nemiche (chi volesse sapere di più sull’argomento può dare un occhiata anche al seguente post Sardegna ). Dalla Sardegna, Ulisse scese poi verso l’Africa settentrionale, fino a raggiungere un’isola al largo delle coste africane. Omero parla infatti della terra dei Lotofagi, i famigerati mangiatori di loto che fanno addormentare gli uomini di Ulisse somministrando loro un nettare narcotico.

Secondo Erodoto e Polibio, quest’isola si trovava lungo la costa tunisina. Ipotesi questa rafforzata nuovamente dalle parole di Strabone che nella sua Geografia identifica il luogo in cui vivevano i mangiatori di loto con Lotophagitis syrtis, ovvero “Sirte dei mangiatori di loto”. Ebbene la Sirte di Strabone è l’antico nome dell’attuale Gerba, un’isola al largo della Tunisia.

Da qui Ulisse proseguì verso ovest, rasentando la costa nordafricana, fino a raggiungere lo stretto di Gibilterra.

Secondo l’opera di Omero, Ulisse nei suoi viaggi raggiunge anche il Tartaro, ossia la versione greca dell’Inferno. Tenete presente che il Tartaro non è soltanto l’abisso di tormenti e sofferenze dei greci, ma anche il luogo dell’Ade in cui erano imprigionati i Titani, gli dei mostruosi nati prima degli Olimpi, creature dall’immenso potere, esseri di fuoco e distruzione.

Ebbene, Strabone, sempre nella sua Geografia, sostiene che il Tartaro in cui si reca Ulisse sia in realtà la città semi mitica di Tartesso (dobbiamo ammettere che anche solo l’assonanza tra i due luoghi è evidente). Secondo Strabone, ed anche altri testi antichi, Tartesso è “l’ultimo punto occidentale, al di là delle Colonne d’Ercole”, ovvero l’antico nome dello Stretto di Gibilterra. Per i popoli dell’antichità, qualsiasi cosa si trovasse oltre le Colonne d’Ercole, dove il sole tramontava e la notte scendeva, era considerata infausta. Dunque quale luogo migliore in cui immaginare l’ubicazione dell’Ade o del Tartaro! Ma dove di preciso potremmo ubicare Tartesso? Si diceva che Tartesso, città di grande potere e ricchezza, sorgesse lungo le coste della Spagna meridionale, appena al di là dello Stretto di Gibilterra.

Eforo, uno storico del IV secolo, così la descrive: “Tartesso è un mercato assai prospero, con molto stagno trasportato dal fiume, oltre a oro e rame”.  E’ curioso notare che lo stagno, in questa descrizione, viene menzionato prima dell’oro. Probabilmente perché Tartesso era nota per essere uno dei maggiori produttori di bronzo e degli elementi per realizzarlo, e lo stagno è fondamentale per la produzione di bronzo. Esiste poi un’altra fonte ritenuta molto affidabile soprattutto dai cattolici, ossia l’Antico Testamento. In molti libri dell’Antico Testamento viene menzionata una misteriosa città chiamata Tarsis; in Ezechiele per esempio leggiamo: “Tarsis commerciava con te, per le tue ricchezze di ogni specie, scambiando le tue merci con argento, ferro, stagno e piombo”. In altre parole un’altra mitica città colma di ricchezze, con un nome che richiama quello di Tartesso. Molti archeologi biblici convengono che Tarsis e Tarsesso siano in realtà la stessa città. Ma perché questa città è così importante? Per le numerose voci che girano su Tarsis e Tarsesso, antiche di millenni e tramandate dagli antichi greci agli studiosi dei nostri tempi. Si crede che questa città fosse non solo ricca, ma ospitasse una società decisamente in anticipo sui suoi tempi. Molti sono arrivati addirittura a paragonarla ad Atlantide. Vero o no che sia, possiamo indicare con sufficiente precisione dove si trova esattamente questa città, questo grazie a Pausania, uno scrittore del II secolo d.C. che scrisse: “Tartesso dicono essere un fiume nel paese degli Iberi entrante in mare per due foci…altri poi vi sono che stimano esser ora chiamata Carpia”. Analizzando questa e altre descrizioni, gli studiosi odierni sono giunti alla conclusione che Tartesso fosse ubicata da qualche parte sul delta di un fiume tra Cadice e Huelva, lungo la costa meridionale della Spagna. Infine, secondo quanto scritto nell’Odissea, poco dopo aver lasciato l’Ade, Ulisse finisce in uno strano regno perduto, un regno abitato da “uomini lontani da tutto, e nessuno degli altri mortali giunge da loro”. Questo popolo, i feaci, possedeva una misteriosa tecnologia avanzata. Omero scrive infatti che le loro navi, rapide come falchi, erano capaci di navigare in autonomia; era sufficiente impostare la rotta e quelle ti portavano a destinazione. Ed è proprio a bordo di una nave feace che Ulisse riesce finalmente a tornare a casa, a Itaca.

Ma chi erano i feaci? Non ci è dato saperlo con certezza, ma l’origine del nome feace, viene dalla radice greca phaios, che vuol dire grigio. Feaci significa quindi popolo grigio, per questo alcuni studiosi sostengono che questo nome indicasse una tribù dalla pelle scura.

 

Foto fumarole isola di Vulcano di Benjamín Núñez González sotto licenza  Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International

Foto fortino di Gerba di Chapultepec sotto licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported

Foto cartina Tartesso di Lanoyta sotto licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International