Martinica, 8 maggio 1902.
Un sonoro rimbombo si diffonde dalle profondità del monte Pelèe a intervalli regolari, come se al suo interno si trovi una grossa bestia che ruggisce. La vetta è avvolta dall’oscurità e l’odore di zolfo impregna l’aria contribuendo a creare uno scenario tanto infausto quanto inquietante. Sembra quasi che il diavolo in persona abbia preso dimora in quel posto. Nessuno però si immagina la catastrofe, anche perché la vulcanologia è ancora una scienza praticamente tutta da inventare. Molti abitanti iniziano ad abbandonare la città di Saint-Pierre, la città più grande dell’isola che conta una popolazione di circa 30.000 persone, ma il governatore dell’isola emette un’ordinanza che impedisce alla popolazione di lasciare la città dichiarando che il monte Pelée è sicuro. Questo perché qualche giorno dopo si terranno le elezioni e teme che non avranno luogo se fuggono tutti. Eppure qualche giorno prima si erano già registrati inquietanti avvenimenti. Mentre nelle campagne poste alle pendici della montagna gli animali si agitavano palesemente, in uno zuccherificio a nord di Saint-Pierre, vi fu una spaventosa invasione di migliaia di formiche e giganteschi centopiedi, le pericolose scolopendre.
Le formiche si riversarono a frotte sopra qualsiasi cosa, mordendo come furie, e con le scolopendre fu ancora peggio; questi insetti velenosi, lunghi quasi trenta centimetri, assalirono i cavalli, difesi con getti di acqua dagli operai della ditta. Nei capannoni, una lotta senza quartiere si instaurò fra i centopiedi e gli uomini dello zuccherificio. Essi cercavano di schiacciare le repellenti scolopendre con sacchi pieni di merce, bastoni, attrezzi vari. Tutto era imbrattato dal sangue di quelle bestiacce. Poi arrivarono i serpenti. Un’invasione di serpenti, che erano stati messi anch’essi in fuga dalle scosse e dalla cenere calda che martoriava le pendici del Pelée, si verificò in un quartiere della città. Si trovavano fra gli altri rettili anche delle vipere, dal morso letale: queste attaccarono maiali, polli, cani e cavalli, e provocarono un fuggi fuggi disperato degli abitanti. Molti bambini vennero morsicati e uccisi dai serpenti, e il sindaco dovette inviare i soldati per sterminare i pericolosi animali.
Poi arrivò la notizia che un torrente di fango, aveva sepolto in pochi minuti lo zuccherificio, già sede della lotta contro gli insetti invasori. Morirono tutti gli operai che non erano ancora scappati, circa una trentina. Ogni cosa venne sommersa dalla calda coltre di fango. Questi furono i segni premonitori che portarono poi alla catastrofe dell’ 8 maggio, quando poco prima delle 8 del mattino il sole sembrò spegnersi. Un enorme pennacchio di fumo nero e cenere era sfrecciato dritto in cielo, come lo sparo di un cannone di una corazzata.
Il fianco della montagna esplose e un secondo ammasso di cenere scese dalle pendici del Pelèe, gonfiandosi in una valanga ardente di gas surriscaldato.
Questa colata mortale puntò dritto sulla città di Saint-Pierre, sommergendola nel giro di poco più di un minuto. Si tratta di una miscela di gas e materiale a temperature molto elevate , fino a 500 ° C che si muove ad una velocità enorme di oltre 200 km / h. Arrivando al porto di Saint-Pierre, l’onda d’urto genera un maremoto che si aggiunge all’effetto distruttivo del flusso piroclastico. Nel raggio di otto miglia dal Monte Pelée non rimase in vita più nulla, cancellando la “Parigi dei Caraibi”, così come era conosciuta la città di Saint-Pierre. Le persone morirono soffocate e bruciate dal calore dell’eruzione, con i polmoni inceneriti dall’interno a seguito anche di un solo respiro. Quattro giorni dopo arrivarono le prime squadre di soccorso, ma da salvare non c’era più nulla. Tutti gli esseri umani che abitavano questa città delle Antille morirono in brevi istanti. O meglio quasi tutti. Un uomo, di nome Ludger Sylbaris era chiuso all’interno della propria cella. Era orribilmente bruciato dall’aria che entrò nella sua stanza ad una temperatura di circa 1.000 gradi, ma in qualche modo riuscì a sopravvivere.
Cercò di proteggersi urinando sui vestiti e spingendo il tessuto bagnato nella piccola fessura della porta che comunicava con l’esterno. In questo modo la cella non si scaldò a una temperatura mortale, e per non respirare l’aria incandescente si mise in faccia un panno bagnato, riuscendo miracolosamente a salvarsi. Le squadre di soccorso lo trovarono malridotto e ustionato ma, incredibilmente, vivo grazie alle spesse pareti in pietra della sua cella che funzionarono da isolante termico.
Oltre a Sylbaris sopravvissero altre 2 persone alla catastrofe su un totale di 30 mila. Il primo fu il signor Léon Compère-Léandre che riuscì a gettarsi nell’oceano e andare al largo cavandosela con numerose ustioni e la seconda è una bambina, di nome Havivra Da Ifrile, la quale riuscì a scappare sopra una barca e a nascondersi in una grotta, evitando la violenza del calore infernale. Loro furono gli unici sopravvissuti su decine di migliaia di persone, sopraffatte dalla violenza dell’eruzione del Monte Pelèe. Oggi Saint-Pierre è tornata ad essere una ridente cittadina caraibica, con più di 4000 abitanti (meno di un quinto rispetto alla sua popolazione precedente all’eruzione).
Foto scolopendra di Fritz Geller-Grimm sotto licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 2.5 Generic
Foto serpente ferro di lancia di Danleo sotto licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported
Foto prigione di Saint-Pierre di Riba sotto licenza GNU Free Documentation License,