Nella primavera del 1986 il reattore numero quattro della centrale nucleare di Chernobyl esplose nel cuore della notte.

Nell’arco di dieci giorni, aveva eruttato una quantità di radiazioni pari a quattrocento bombe sganciate su Hiroshima, una nube che aveva fatto il giro del mondo. Sino a quel momento, secondo l’accademia russa delle scienze mediche, oltre centomila persone erano morte in seguito all’esposizione radioattiva e altri sette milioni erano stati contaminati, quasi tutti bambini, lasciando un’eredità di tumori e anomalie genetiche.

A più di millecinquecento chilometri di distanza da Chernobyl, la provincia di Celjabinsk sugli Urali era stata usata per scavare gran parte del combustibile per Chernobyl, oltre al plutonio destinato al programma di armamento sovietico. Ora è uno dei luoghi più radioattivi del pianeta.

Tale regione infatti era il cuore della produzione di uranio e plutonio dell’Unine Sovietica, con una centrale dotata di sette reattori attivi per la produzione del plutonio e di tre impianti per la sua separazione, e tutto era stato gestito alla peggio.

Dal 1948, gli impianti di produzione avevano perso il quintuplo delle radiazioni di Chernobyl e di tutti i test nucleari atmosferici del mondo messi insieme, e metà di quelle radiazioni è ancora conservata nel lago Karacaj, usato come discarica per rifiuti radioattivi.

Il livello di radiazioni sulla riva del lago è di seicento roentgen per ora; sufficiente a fornire una dose letale in un’ora.

Studi geologici hanno messo in evidenza delle faglie che passano sotto il lago Karacaj.

E’ solo una questione di tempo prima che un terremoto apra una di quelle fratture e scarichi tutta la radioattività nel bacino imbrifero degli Urali.

Secondo stime fatte da geofisici norvegesi, una catastrofe del genere finirebbe con lo sterilizzare gran parte dell’oceano Artico, l’ultima grande terra incontaminata del pianeta. Da lì la radioattività si spargerebbe per mezzo mondo, concentrando i suoi effetti peggiori sull’Europa settentrionale.

Secondo stime prudenziali, i morti in seguito alla radiazione primaria e ai tumori secondari sarebbero cento milioni.

Un numero che potrebbe raddoppiare o triplicare con facilità secondo i danni  economici e ambientali che ne deriverebbero.

In previsione della festa del Primo Maggio del 1986, a Pripjat, città abitata da quattromila operai con le loro famiglie, fu costruito un Luna Park, ora divenuto un simbolo e un monumento alla rovina lasciata da Chernobyl.

Pripjat infatti fu distrutta, soffocata da una nube radioattiva.

La città, costruita negli anni 70 era un fulgido esempio di architettura e pianificazione urbana sovietica: il teatro Energetic, il sontuoso hotel Polissia, un modernissimo ospedale e decine di scuole.

Ora il teatro cade in rovina. Dal tetto dell’hotel spuntano alberi di betulla. Le scuole si sono sgretolate come castelli di sabbia, piene di libri di testo ammuffiti, vecchie bambole e blocchi giocattolo di legno.

In alcune stanze vi sono mucchi di maschere antigas abbandonate, immobili e inespressive come volti di morti.

La città un tempo piena di vita è stata ridotta a finestre rotte, muri crollati, vecchie reti di letti e vernice scrostata.

Ovunque crescono spontaneamente erbacce e alberi, distruggendo ciò che l’uomo aveva costruito.

Ora in questo luogo vanno solamente i turisti, quattrocento dollari a testa per esplorare la città fantasma.

E la causa di tutto ciò…la centrale nucleare di Chernobyl.

L’esplosione del reattore numero quattro aveva eruttato una nube che aveva avvolto mezzo pianeta.

Nonostante ciò, in quel luogo l’ordine di evacuazione venne dato con trenta ore di ritardo.

La foresta che circondava la città divenne rossa di polvere radioattiva. I cittadini spazzavano i portici ed i balconi per tenerli puliti mentre il plutonio bruciava negli incendi scoppiati a tre chilometri di distanza.

Per cercare di contenere quell’orrore, venne costruita una grande e tozza cripta d’acciaio e cemento.

Non era un mistero il motivo per cui la struttura era detta il sarcofago; sembrava una tomba, nel cui centro giacevano i resti del reattore numero quattro.

Al suo interno un paesaggio devastato di cemento bruciato e acciaio contorto. In una stanza c’è addirittura un orologio carbonizzato e mezzo fuso, che segna per sempre l’ora dell’esplosione.

All’interno del sarcofago sono seppellite tra le macerie oltre duecento tonnellate di uranio e plutonio, in gran parte sotto forma di lava solidificata, formatasi dalla fusione radioattiva di cemento e duemila tonnellate di combustibile.

Pezzi del nucleo esploso sono sparsi ovunque, alcuni conficcati nelle pareti esterne. Ai livelli inferiori dell’impianto, le infiltrazione di acqua piovana e le polveri si raccolgono in una melma radioattiva.

Ma dopo qualche tempo il sarcofago cominciò ad essere bagnato, come se sudasse.

Il guscio di cemento armato si stava sgretolando; era stato progettato solo come soluzione temporanea, ed erano passati vent’anni.

C’era da meravigliarsi che fosse necessaria una nuova soluzione?

Aveva diversi nomi: la cupola, l’arco della vita, il nuovo sarcofago.

Si costruì un arco a forma di hangar che s’innalzava trenta piani nel cielo. Con un peso di oltre ventimila tonnellate, si sviluppava per duecentocinquanta metri in larghezza e per la metà in lunghezza. Sotto la volta, gru a ponte robotiche smontarono il vecchio sarcofago pezzo per pezzo, azionate da tecnici al sicuro all’esterno della cupola.

L’intero arco poggiava su rotaie d’acciaio lubrificate, sulle quali era trasportato piano piano, tirato da una coppia di enormi martinetti idraulici. Era la più grande struttura mobile mai costruita dall’uomo, pesante diciottomila tonnellate ed alto la metà della torre Eiffel.

Fu così che la cupola coprì il vecchio sarcofago, sigillandolo e seppellendo completamente una brutta pagina della storia russa.

Ma ora ha inizio la seconda parte della tragedia, quella di coloro che, contaminati in giovane età, stanno avendo figli a loro volta.

E’ stato denunciato un aumento del trenta percento delle malformazioni congenite.

I bambini dell’Ucraina e della Bielorussia hanno pagato per gli errori del passato.

Il nuovo sarcofago ha segnato la fine della tragedia e sarà un imperituro monumento a ricordo degli uomini e delle donne che hanno dato la vita non solo per la Russia, ma anche per il mondo.

I vigili del fuoco che tennero duro con le manichette dell’acqua mentre le radiazioni bruciavano il loro futuro; i piloti che si arrischiarono nella nube tossica per trasportare cemento e scorte; i minatori che giunsero da ogni angolo della Russia per aiutare a costruire il primo guscio per seppellire il reattore; questi uomini e donne gonfi di orgoglio patriottico, non devono essere dimenticati, né loro né il loro sacrificio.

Quel passato nucleare non ha ancora chiuso col mondo.

Ora sembriamo rallegrarci di aver cancellato una pagina ignominiosa della storia russa, di averla nascosta, come se non fosse mai accaduta, sotto un tappeto d’acciaio.

E coloro che sono rimasti uccisi durante l’esplosione?

E le centinaia di migliaia di persone condannate a morire di cancro e leucemia?

E le migliaia di bambini nati con malformazioni, sofferenze e disturbi mentali?

Chi parlerà per loro?

Crediamo che una bella bara come quella appena descritta metta la parola fine a un’eredità maledetta, ma è tutta una messinscena.

Il mostro è già fuggito dalla gabbia; non importa quanto è grande il lucchetto o forte l’acciaio, non possiamo rimettere il mostro dietro le sbarre.

L’unico vero modo per cancellare questa eredità è cambiare radicalmente il nostro atteggiamento, promuovendo politiche lungimiranti e durature. Altrimenti dovremmo solo vergognarci!

Come possiamo guardare il paesaggio devastato di Chernobyl e non capire che dobbiamo entrare in una nuova era?

Dobbiamo gettarci tutto alle spalle, ma non dimenticarlo mai.

Guardiamo la città di Pripjat! Ciò che l’uomo ha rovinato, la natura consuma.

Alcuni chiamano questo luogo il giardino dell’Eden di Chernobyl.

Non sono belli i boschi che hanno preso il sopravvento sulla città?

Gli uccelli cantano, i cervi scorrazzano, ma sappiate che sono tornati anche i lupi.

Non lasciatevi ingannare dalla bellezza di quel posto, resta pur sempre un giardino radioattivo.

Chi oggi riesce ad entrare nella “Zona di Esclusione”, passerà davanti ai duemila veicoli utilizzati per spegnere l’incendio radioattivo di Chernobyl: autopompe, aerei, ambulanze, ancora troppo radioattivi per potersi avvicinare.

Si devono indossare dosimetri, perciò non cadiamo in inganno. La natura è tornata ma soffrirà per generazioni. Ciò che appare sano e vitale non lo è; è solo una falsa speranza.

Lo so, molti di voi diranno che una cosa del genere non potrà più accadere, e le mie parole sono quelle di uno sprovveduto perché oggi c’è un nuovo mondo là fuori.

Ma in realtà no, non c’è. L’ultima volta che ho controllato era lo stesso pianeta che girava intorno allo stesso Sole. L’unica cosa che è cambiata è il modo in cui reagiamo, quali limiti siamo disposti a oltrepassare.

 

Animazione reattore esploso di Tadpolefarm  sotto licenza  Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International

Foto reattore Chernobyl di Carl Montgomery  sotto licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic

Foto nuovo sarcofago Chernobyl di Tim Porter sotto licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International

Foto zona interdizione Chernobyl di Slawojar sotto licenza  Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported

Foto natura selvaggia Chernobyl di Natis sotto licenza  Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported

Foto Pripjat di Jorge Franganillo sotto licenza  Creative Commons Attribution 2.0 Generic

Foto Pripjat ruota panoramica di Tiia Monto sotto licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported

Foto Pripjat autoscontro di Justin Stahlman sotto licenza  Creative Commons Attribution 2.0 Generic

Foto Pripjat teatro Energetic di Tiia Monto sotto licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported

Foto Pripjat hotel Polissia di Justin Stahlman sotto licenza  Creative Commons Attribution 2.0 Generic

Foto Pripjat rovine di Timm Suess sotto licenza  Creative Commons Attribution 2.0 Generic

Foto Pripjat rovine classe scolastica di DAVID HOLT sotto licenza  Creative Commons Attribution 2.0 Generic