L’Unione Sovietica fu l’unica nazione coinvolta nella seconda guerra mondiale a far combattere nei cieli le donne, alla guida di caccia e bombardieri. Erano soprattutto ragazze intorno ai vent’anni, il prodotto dell’accelerazione nell’aeronautica sovietica degli anni ’30. Quando scoppiò la guerra, c’erano migliaia di giovani donne qualificate e pronte a servire la patria come piloti militari, decise a difendere il loro Paese. Forse non sarebbe mai accaduto senza Marina Raskova,

l’Amelia Earheart dell’URSS, che sfruttò senza remore il favore di Stalin per creare tre reggimenti fondati e addestrati interamente da donne. Le pilote di caccia diurni e quelle dei bombardieri (tra queste ultime Lilia Litvjak

che fu uccisa in un duello aereo, divenendo però il primo asso donna della storia dell’aeronautica) alla fine accolsero anche gli uomini nei loro ranghi. I bombardieri della notte invece, furono pilotati per tutta la durata del servizio soltanto da donne, per le quali era un punto di grande orgoglio. Le donne del 46° reggimento guardie di Taman per il bombardamento leggero notturno dell’aeronautica entrarono in guerra a bordo di obsoleti Polikarpov U-2,

biplani con cabina di pilotaggio aperta, fatti di tessuto e compensato, di una lentezza esasperante e altamente infiammabili, privi di radio, paracadute e freni. Le donne eseguivano bombardamenti su più passaggi sfidando venti di montagna e correnti costiere, in estate e in inverno, da cinque a diciotto raid per notte, dormendo raramente più di tre ore a notte, poiché facevano affidamento su sostanze stimolanti che distruggevano la loro capacità di riposare quando non erano in servizio. Volarono senza sosta in tali condizioni per tre anni, sopravvivendo grazie a brevi sonni e al cameratismo, sviluppando una routine continua di atterraggio e rifornimento che consentì loro di stabilire record di efficienza inarrivabili per altri reggimenti di bombardieri notturni. L’instancabile efficienza delle donne nel cercare di raggiungere il numero massimo di passaggi ogni notte costituiva anche un’opprimente guerra psicologica nei confronti dei tedeschi a terra, che si convinsero che le loro planate silenziose producessero lo stesso suono delle streghe sulle scope e le soprannominarono “streghe della notte”. Tanta dedizione richiese però un pesante tributo: il reggimento perse circa il 27% del personale di volo per incidenti e fuoco nemico. Furono anche ricompensate con una quantità sproporzionata di medaglie di Eroe dell’Unione Sovietica, il massimo riconoscimento dell’URSS. Tra le tante “streghe della notte”, meritano una menzione:

  •  la tenente maggiore Evgenija Zigulenko che riuscì a farsi ammettere all’addestramento telefonando a un colonnello del dipartimento dell’Aeronautica scelto a caso, estorcendogli un appuntamento e poi rifiutandosi di andare via fin quando esasperato l’uomo ne aveva parlato con la Raskova che l’accettò nel gruppo
  • la navigatrice Irina Kasirina, che riuscì a eseguire con successo un atterraggio con un braccio solo, reggendo la barra con una mano mentre con l’altra teneva la sua pilota ferita indietro per vedere i comandi
  • il capitano Larisa Litvinova-Rozanova, che descrisse come pilota e navigatrice dormissero a turno andando e tornando dall’obiettivo e raccontò l’orrore di vedere tre aerei davanti al suo e uno dietro abbattuti da un caccia notturno (la perdita peggiore per il reggimento) mentre lei riusciva a mettersi in salvo volando basso
  •  la maggiore Marija Smirnova, che visse l’esperienza di essere spinta sul mare di Azov e lottare contro il vento e le nuvole per evitare di precipitare in mare.

Moltissimi sono anche gli aneddoti relativi alle “streghe della notte”, come la necessità di arrampicarsi su un’ala per sganciare una bomba bloccata, essere inseguite da aerei tedeschi e dividersi per evitare di essere colpite, cantare, ballare e ricamare nelle attese alla base aerea, essere vessate dai piloti maschi e l’umiliazione di dover indossare biancheria intima prodotta in massa per gli uomini. Per i più pruriginosi, non è noto se ci furono relazioni romantiche tra le donne del 46°, non esistono memorie o interviste che ne parlino, ma nell’oppressione dell’Unione Sovietica nessuno avrebbe mai parlato di un legame del genere. Così come nelle interviste, le pilote sono altrettanto restie a criticare il regime del potere. Perfino dopo il crollo dell’Unione Sovietica, una sola “strega della notte” ammise apertamente un disprezzo estremo per Stalin e il suo governo. Non c’è dubbio che ci siano state anche altre comuniste meno convinte, sebbene lottassero per difendere la loro patria, ma di certo avevano sempre ben presente la possibilità che i servizi segreti le ascoltassero, dunque tacevano. Non si ha notizia che una donna del 46° abbia mai disertato durante un raid per sottrarsi all’arresto, ma l’aeronautica militare sovietica doveva temere che potesse accadere qualcosa del genere, perché era risaputo che non venivano conferite onorificenze postume a piloti dei quali non fosse stato ritrovato il corpo. I capi sovietici dovevano essere ben consapevoli del rischio che qualche pilota capace potesse spingere il proprio aereo nella direzione opposta e rifarsi una vita in Occidente. Ora è bene ricordare che la Polonia alla fine del 1944 doveva essere un posto terribile in cui sopravvivere. L’insurrezione di Varsavia (una città ormai distrutta) era nel pieno, con l’esercito sovietico che incombeva da est mentre i nazisti cominciavano a fuggire.

Poznan, fu teatro di enormi tragedie: molti cittadini polacchi vennero sfollati, arrestati e giustiziati per lasciare il posto ai tedeschi, che vi si trasferirono per farla diventare una nuova provincia ariana.

Il lago Rusalka venne creato sfruttando schiavi polacchi e fu teatro di diversi massacri. Monumenti commemorativi dei morti sorgono oggi come testimonianza silenziosa tra gli alberi intorno a un luogo che altrimenti sarebbe da considerare meraviglioso.

Poznan è stata anche sede di un campo di prigionia, lo Stalag XXI-D, che ospitò numerosi prigionieri alleati costretti ad attendere nella frustrazione la fine della guerra.

I tentativi di fuga dalle mura dello Stalag erano frequenti, ma gran parte dei fuggitivi veniva ricatturata o uccisa. Un uomo però, Allan Wolfe, arrivò a piedi in Cecoslovacchia e riuscì a sopravvivere nella campagna fino alla fine della guerra. Dunque la sopravvivenza era possibile, per quanto difficile. Molti furono gli uomini e le donne che dedicarono la loro vita a rintracciare criminali di guerra nazisti, ma tutti rifiutavano la definizione di “cacciatori di nazisti”, perché evocava avventure al cardiopalma in stile hollywoodiano, mentre la realtà era ben diversa. Le prime indagini per crimini di guerra cominciarono subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, prendendo il via dalle testimonianze dei sopravvissuti dei campi e dei loro liberatori, rintracciando i responsabili nei campi di prigionia e nei loro nascondigli. A uomini come William Denson, procuratore capo dell’esercito degli Stati Uniti nei processi di Dachau,

e Benjamin Ferencz, procuratore capo nel processo contro gli assassini dell’Einsatzgruppen,

si devono centinaia di processi e condanne. Ma dopo i processi di Norimberga cominciò a prevalere un senso generale di completezza per quel che riguardava i criminali di guerra del Terzo Reich; solo una piccola percentuale dei colpevoli era stata processata, ma la stanchezza a livello internazionale nei confronti delle questioni legate al conflitto e il timore crescente dell’Unione Sovietica contribuirono alla tendenza a dimenticare il passato che seguì Norimberga. Negli anni ’70 e ’80 ci fu una nuova ondata d’interesse per i criminali nazisti, soprattutto quando la Guerra Fredda giunse al declino e arrivò la consapevolezza che i veterani e i testimoni della seconda guerra mondiale stavano invecchiando, ma le squadre d’investigazione post-Norimberga non ebbero mai vita semplice. Alcune indagini vennero finanziate dal governo, altre svolte attraverso centri di documentazione per rifugiati come quelli aperti a Vienna da Tuviah Friedman

e a Linz da Simon Wiesenthal,

altre ancora portate avanti privatamente da zelanti giornalisti, magistrati ed esperti legali; non esisteva una strategia comune né un accordo sulle procedure, e tali gruppi lavoravano spesso in conflitto tra loro. La ricerca dei nazisti non era un’attività prestigiosa: le squadre d’investigazione era sempre sottopagate, sovraccariche e molto poco apprezzate; gli elenchi dei criminali e dei luoghi in cui si erano rifugiati dopo la guerra erano spesso incompleti, non aggiornati oppure fuori dalla portata di chi ne aveva bisogno. La cattura di un criminale di guerra in genere richiedeva noiosi controlli incrociati di dati e fotografie, difficili interrogatori dei vicini o dei familiari del sospetto, che in genere non avevano motivo né obblighi legali a collaborare, e lunghe ore passate a verificare indirizzi, seguendo amici e conoscenti di un sospetto oppure girando per il Paese per scovare possibili ubicazioni. Ci si destreggiava con mazzette, fascino, astuzia e pazienza, perché gran parte delle ricerche richiedeva mesi, se non anni. Una volta arrestato un criminale di guerra, non c’era nessuna certezza che venisse processato; in Europa, numerosi ex nazisti continuarono a mantenere posizioni importanti all’interno delle forze dell’ordine e nel governo, e i processi furono ostacolati dall’indifferenza, dalla corruzione e perfino da minacce di morte. La ricerca di quelli che erano fuggiti oltreoceano era ancora complicata dalle difficoltà dell’estradizione. Un’indagine del genere poteva concludersi con una battaglia legale infinita per ottenere il permesso di deportare un criminale (ci vollero più di dieci anni per estradare Klaus Barbie, il “boia di Lione”,

dalla Bolivia perché fosse processato in Francia), in un rapimento per evitare l’estradizione (come fece il Mossad con Adolf Eichmann,

portandolo dall’Argentina in Israele, dove fu processato e giustiziato), oppure in un omicidio (come nel caso dell’assasinio di Herbert Cukurs,

chiamato “l’Eichmann della Lettonia”, in Brasile). Ci sono stati uomini che hanno dimostrato un’enorme dedizione alla giustizia per l’umanità, tra questi va ricordato Fritz Bauer,

un rifugiato ebreo tornato in patria dopo il conflitto che si dedicò senza sosta alle attività d’incriminazione dei criminali di guerra nonostante la schiacciante opposizione e ostilità del governo della Germania Ovest, che desiderava solo dimenticare i delitti del passato, anziché espiarli. Da allora i tempi sono cambiati e, in una Germania moderna che si è largamente addossata la responsabilità per la terribile storia di cui è stata protagonista, Fritz Bauer è oggi ricordato come uno dei primi cacciatori di nazisti. Non c’è nessun dubbio che diversi criminali di guerra si trasferirono in America dopo il conflitto. Nel 1973 la deputata democratica del Congresso Elizabeth Holtzman,

durante una riunione di una sottocommissione ordinaria, domandò se l’ufficio immigrazione fosse a conoscenza di criminali di guerra nazisti che vivevano negli Stati Uniti, e la risposta arrivò senza nessuna esitazione: “Si. Sono cinquantatré”. C’era un elenco; solo che non esistevano organizzazioni, fondi, o interesse per investigare su quei nomi. Tempo dopo Holtzman insistette per creare l’Office of Special Investigations all’interno del dipartimento di giustizia, ma prima dell’OSI qualsiasi criminale nazista che fosse riuscito a rifugiarsi negli Stati Uniti aveva ottime speranze di vivere senza turbamenti. Hermine Braunsteiner ad esempio,

fu una brutale guardia nei campi di Ravensbruck e Madjanek. Dopo la guerra, scontò una breve pena carceraria in Europa e dopo essere uscita di prigione sposò un americano conosciuto in vacanza in Austria. Divenne una cittadina statunitense e trascorse una vita tranquilla nel Queens, New York. I suoi vicini furono stupefatti quando nel 1964 venne identificata e accusata di crimini di guerra. La donna il cui marito sconvolto continuava a ripetere “Non farebbe male ad una mosca!” divenne la prima criminale di guerra nazista ad essere estradata dagli Stati Uniti. Erna Petri invece,

durante la guerra, quand’era la moglie di un ufficiale delle SS, trovò sei bambini ebrei fuggitivi nei pressi della sua casa in Ucraina, li portò nella sua abitazione e diede loro da mangiare,

poi li freddò a colpi di pistola. Fu processata nel 1962 e condannata a morte. Erna Petri durante il processo assunse un atteggiamento difensivo, ammettendo che il suo operato era degno di biasimo, ma giustificandosi sostenendo di essere stata condizionata dalle leggi razziali contro gli ebrei e indurita vivendo tra uomini delle SS che mettevano in atto frequenti esecuzioni. Entrambe queste donne affrontarono la giustizia, ma la strada fu lunga, tra burocrazia e documenti: ci vollero sette anni prima che la cittadinanza di Braunsteiner venisse annullata, altri due prima che fosse estradata in Germania e altri otto per la sentenza di ergastolo. Ancora oggi personalmente, non riesco a comprendere cosa abbia spinto tutte quelle persone a macchiarsi dei crimini che hanno commesso. E la cosa preoccupante è che spesso i vivi tendono a dimenticare, e quando gli uomini dimenticano corriamo il rischio di ripetere gli stessi errori. Ci avviamo pigri verso nuovi orizzonti e ci ritroviamo a guardare negli occhi vecchi rancori, seminati e nutriti dalla dimenticanza, pronti a sbocciare in nuove guerre, nuovi massacri, nuovi mostri. Cerchiamo dunque di non dimenticare, stavolta. Ricordiamo.

 

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Foto Polikarpov U-2 di Douzeff sotto licenza GNU Free Documentation

Foto Marija Smirnova sotto licenza  Creative Commons Attribution 4.0 International 

Foto lago Rusalka sotto licenza  Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported 

Foto Stalag XXI-D di Rzuwig  sotto licenza  Creative Commons Attribution 3.0 Unported 

Foto Grzenda manor house di Aeou  sotto licenza  Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International