In termini di creazione della vita artificiale, gli scienziati stanno bruciando le tappe molto in fretta.

Un interesse particolare negli ultimi anni si è concentrato sulle biosfere ombra.

Nello specifico si tratta di studiare forme di vita atipiche, la cui sopravvivenza dipende da processi biochimici o molecolari insoliti, per esempio gli organismi che utilizzano l’RNA invece del DNA.

Ma le biosfere ombra possono essere anche più bizzarre, e comprendere forme di vita ancora ignote, basate su un gruppo di aminoacidi del tutto diversi da quelli comuni.

Nel 2010, un’equipe di scienziati della NASA è riuscita ad isolare un microbo altamente alcalino, e lo ha indotto a impiegare l’arsenico invece del fosforo nei suoi processi biochimici.

Questo esperimento potrebbe dimostrare che le prime forme di vita sulla Terra dipendevano dall’arsenico, e si può ipotizzare anche l’esistenza di una ricca biosfera di quegli stessi organismi ancora vivente da qualche parte sul pianeta.

Ma ci sono anche molte altre biosfere ombra ipotetiche, come la vernice del deserto, ossia quel rivestimento rosso ruggine o nero che si forma sulle superfici esposte delle rocce. In passato, i nativi lo raschiavano per creare petroglifi, ma la particolarità della vernice del deserto è che la sua formazione resta a tutt’oggi inspiegata.

Una reazione chimica? Il sottoprodotto di un ignoto processo microbico? Nessuno lo sa; si discute ancora se sia materia inanimata o un essere vivente.

Ora, come sappiamo tutti i virus si dividono in due categorie: quelli che utilizzano come base genetica l’acido desossiribonucleico, o DNA, e quelli che impiegano l’acido ribonucleico, o RNA.

Nelle biosfere ombra però, potrebbero celarsi virus che non contengono ne desossiribosio ne ribosio, ma che presentano una struttura genetica basata su una sostanza estranea, ossia XNA.

La X sta per xeno, alieno. Ovviamente non nel senso di extraterrestre, ma di sconosciuto.

E proprio partendo da questo presupposto, da oltre un decennio gli scienziati stanno creando vari tipi esotici di XNA, con materiale genetico sintetico, che in condizioni di laboratorio dimostrano la capacità di replicarsi e di evolvere proprio come il nostro DNA.

Ma c’è un dettaglio significativo che accomuna i vari tipi di XNA creati in laboratorio, si sono tutti dimostrati resistenti alla degradazione, in altre parole, sono più coriacei.

A questo punto è facile immaginare esperimenti con la vita sintetica in cui si cerca di costruire un ecosistema più resistente, basato o rafforzato dall’XNA, qualcosa in grado di sopravvivere all’inquinamento o al riscaldamento globale.

Finora (fortunatamente) nessuno è mai riuscito a costruire un organismo pienamente funzionale basato su XNA. Il numero di variabili in gioco è astronomico, e allo stato attuale della scienza è un progresso troppo rivoluzionario.

Ciò non toglie che si possano realizzare progressi basandosi su uno schema preesistente, trovando un organismo già esistente in natura basato sull’XNA, e ci si limiti a manipolarlo per dargli certe caratteristiche, creando un ibrido di biologia naturale e sintetica.

Spingiamoci ancora più in là, immaginiamo di poter sfruttare le caratteristiche migliori dell’XNA, inserendole in un guscio per vaccinare le specie a rischio (o forse tutte le specie) allo scopo di renderle più resistenti, più adattabili, capaci di opporsi alle forze globali che ci stanno conducendo alla sesta estinzione di massa.

Questo è esattamente quello che gli scienziati definiscono adattamento facilitato.

Ma è possibile incorporare l’XNA al nostro DNA?

I laboratori che al momento stanno studiando l’XNA hanno già dimostrato che i prodotti xenobiologici sono in grado di rimpiazzare pressoché qualsiasi organismo vivente. Dunque si, è possibile, almeno sulla carta. Ma comporta anche un rischio enorme.

Esiste poi una tecnica di manipolazione delle sequenze di DNA che sta già rivoluzionando il campo della ricerca e della manipolazione genetica.

Questa tecnica è nota come CRISPR-Cas9.

Si tratta di una tecnologia del tutto nuova, abbastanza intuitiva da poter essere utilizzata da un neofita, ma talmente potente che negli Stati Uniti parecchie equipe di ricerca l’avevano già impiegata per mutare ogni singolo gene delle cellule umane.

Alcuni l’anno soprannominata la “fabbrica dell’evoluzione”.

Il rischio di abusi è altissimo e preoccupa già molte agenzie di sicurezza nazionale, timorose delle conseguenze, intenzionali o involontarie, se mai cada nelle mani sbagliate. Si possono compiere miracoli, liberi dagli intralci dei regolamenti governativi e lontano da ogni interferenza, raggiungendo i limiti estremi del possibile.

Si potrebbe arrivare a creare una chimera, un ibrido genetico.

La tecnologia esiste già. Mancano solo la volontà, le risorse e la libertà dai controlli e dai regolamenti.

Il CRISPR-Cas9 è in grado di ricostruire una parte qualsiasi di genoma con una precisione impeccabile; se vogliamo fare un paragone, l’equivalente di riscrivere un’intera enciclopedia senza sbagliare nemmeno una lettera. Agghiacciante!

Esistono poi le tecniche MAGE e CAGE scoperte dagli ingegneri genetici dell’università di Yale, del Massachusetts Institute of Technology e di Harvard, che permettono modifiche del genoma su vasta scala.

I processi MAGE e CAGE sono sostanzialmente tecniche d’ingegneria del genoma ad automatizzazione multipla, l’una, e ad assemblaggio congiunto, l’altra, capaci di produrre migliaia di alterazioni genetiche simultanee.

Possono comprimere milioni di anni di evoluzione in pochi minuti, e hanno un potenziale promettente per la resurrezione di specie estinte.

L’una e l’altra promettono di rivoluzionare per sempre la biologia sintetica, facendole compiere passi da gigante…ma per andare dove?

Con queste tecnologie di correzione genica, a partire dal genoma intatto di un animale vivente, i ricercatori possono inserire varianti e correzioni nel DNA, trasformandolo un passo alla volta in quello di una specie imparentata scomparsa.

Dai geni di un elefante, potremmo riportare in vita il mammut.

E questo non è soltanto possibile in teoria. Un russo, Sergeij Zimov, ha addirittura già fondato una riserva sperimentale in Siberia, detta Pleistocene Park, dove spera di liberare presto i mammut redivivi.

Si parla in questo caso di de-estinzione.

La ricerca di nuove sostanze e nuovi composti chimici ha tramutato la caccia agli organismi insoliti che vivono in habitat ostili in una vera e propria corsa all’oro. Gli scienziati hanno scoperto la vita in molti luoghi un tempo considerati sterili: in prossimità di condotti termali sottomarini ad altissime temperature, sotto i ghiacci, nelle terre bruciate dalla contaminazione tossica.

Tra questi organismi estremofili (così vengono chiamati tutti quegli organismi insoliti, batteri, protozoi, qualunque cosa abbia sviluppato strategie uniche per sopravvivere in ambienti ostili), particolare interesse sta suscitando la pianta di Pachycereus pringlei, volgarmente detto cactus elefante per le dimensioni imponenti. Questa pianta ha attirato l’attenzione scientifica per la capacità di sopravvivere in un habitat a dir poco ostile. Raggiunge un altezza superiore ai dieci metri e vive per più di mille anni, spesso radicandosi in un terreno quasi esclusivamente roccioso. Riesce nell’impresa grazie al legame simbiotico con un particolare batterio. Il microorganismo facilita la scomposizione delle rocce in minerali nutrienti e la fissazione dell’azoto nei tessuti della pianta. Una simbiosi perfetta, tanto che il cactus conserva una scorta di batteri nei suoi semi.

Altro estremofilo che desta curiosità è un batterio chiamato Deinococcus radiodurans. Questo cocciuto organismo sopravvive a livelli di radiazioni quindici volte superiori al notoriamente coriaceo scarafaggio. E’ anche noto per la capacità di tollerare temperature glaciali o roventi, siccità e gli acidi più corrosivi. Nemmeno il vuoto dello spazio riesce ad ucciderlo. E’ citato nel Guinnes dei primati come la forma di vita più resistente in assoluto. Speriamo che a nessuno venga in mente di mettersi a giocare con la sua struttura genetica.

Un’ultima curiosità.

I genetisti moderni concordano nel considerare tra le “fabbriche evolutive” anche i cosiddetti geni saltatori, visti come un potente motore di evoluzione. I loro tratti non si trasmettono solo dai genitori alla prole, ma anche tra specie, secondo un processo chiamato “trasferimento genico orizzontale”. Sembra incredibile, ma un quarto del DNA bovino proviene dalla vipera cornuta.

Quindi…occhio al prossimo hamburger.

 

Foto vernice del deserto di Mark Marathon sotto licenza  Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International

Foto DNA di Mstroeck sotto licenza  Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported

Foto RNA di Vossman sotto licenza  Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported

Foto CRISPR-Cas9 sotto licenza  Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported

Foto processo di de-estinzione di 15ldavenport sotto licenza  Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International