Curiosità n°1:

Nel 1645, un giovane soldato della Serenissima, Francesco Morosini, si ritrovò a capo dell’esercito in concomitanza con lo scoppio della guerra contro i turchi.

La colonia veneziana di Creta era ormai caduta in gran parte in mano agli ottomani, ai quali non restava che sferrare l’ultimo attacco conquistando la capitale, Candia.

Per contro, la Serenissima affidò a  Morosini, sprezzante del pericolo e con una buona dose di incoscienza, la difesa della città. Tutto lasciava presagire un assedio di poche settimane, con i turchi in massa a pressare da fuori le mura della città di Candia, e i veneziani asserragliati all’interno a opporre resistenza.

La disfatta delle truppe di San Marco sembrava ormai imminente, ma il giovane ed intraprendente Morosini riuscì a motivare e galvanizzare i suoi come non mai, e quello che doveva essere un assedio di poche settimane divenne in realtà un tantino più lungo. Le truppe turche non davano tregua alla roccaforte veneziana, ma Morosini riuscì a resistere per la bellezza di ventitrè anni, fino a quando poi nel 1669, dopo anni e anni di strenua resistenza costata quasi 140.000 morti fra le due parti, Francesco Morosini decise che era arrivato il momento di dire basta.

Convocò a colloquio il sultano turco e ne ottenne una dignitosa via d’uscita; cedette la città di Candia, ormai abitata da poche migliaia di persone,  i superstiti poterono abbandonare la città con l’onore delle armi e delle bandiere  mantenendo la loro artiglieria, ed i turchi si impegnarono a non entrare nella città se non in capo a 12 giorni, e a lasciar partire liberamente tutti coloro che lo volevano. In questo modo il Morosini era riuscito a salvare quello che restava del suo esercito. Resta il fatto che Morosini era entrato a Candia con i capelli scuri, e  ne uscì esausto e provato facendo vela verso casa con i capelli bianchi.

 

Curiosità n°2:

Nel 1788 fra i boschi al confine fra Ungheria e Romania si combattè l’ennesima guerra fra l’impero asburgico e il suo eterno nemico, i turchi ottomani. Le due armate si sarebbero scontrate alle prime luci dell’alba a Caransebes, sulle rive fangose del fiume Timis.

Già in passato l’armata del sultano era stata sfidata e data sin dall’inizio sconfitta, prostrata ed umiliata dall’impero austriaco quando si era unito a quello russo. Sulla carta quella era un alleanza invincibile, con la numerosissima flotta navale russa che avrebbe scagliato il primo attacco e l’esercito austrico che sarebbe entrato in scena in un secondo atto.

Sulla terraferma il potentissimo generale russo Suvorov, che aveva la fama di essere fatto non di carne ma di ferro, era pronto a godersi lo spettacolo, tronfio e sicuro di un trionfo scontato poiché la flotta turca, vecchia, malconcia e provata da anni e anni di guerre ininterrotte, nulla avrebbe potuto contro la forza militare russa.

Si annunciava una vittoria fin troppo facile e probabilmente gli alleati austriaci non avrebbero nemmeno dovuto scendere in campo. Eppure alla fine, quello che avrebbe dovuto essere un trionfo delle armi si trasformò in un trionfo di sconforto. Senza che il sultano turco Abdul Hamid spari un solo colpo,

l’intera flotta imperiale russa colò a picco nel Mar Nero. Come?

Fece tutto una tempesta; lampi, tuoni, una bufera di vento che spezzò gli alberi maestri, e flutti furiosi che fecero a pezzi la flotta russa. All’impero ottomano non restava che ringraziare Allaha per il prezioso contributo meteorologico.

Questa volta però era diverso. I russi non erano della partita e sarebbe toccata all’imperatore austriaco Giuseppe II la soddisfazione di piegare Abdul Hamid una volta per tutte.

Caransebes avrebbe accolto il fragore delle armi fra boscaglie inospitali e villaggi popolati di zingari. Quando un battaglione di ussari, l’avanguardia dell’esercito di Sua Maestà Imperiale, arriva a Caransebes in ricognizione per riferire dove erano appostati i turchi, non incontra anima viva; tutto tace.  Il comandante dell’esercito asburgico dà comunque l’ordine di pattugliare gli argini del fiume Timis e di tenere gli zingari che abitano quella zona sotto stretta osservazione. Gli ussari obbedirono agli ordini del loro comandante con fin troppo zelo, pattugliando gli argini senza mai perdere di vista un solo zingaro, che da parte loro però avevano una forte propensione alla bisboccia e quando videro avvicinarsi degli estranei pensarono bene di estendere anche a loro i sacri riti dell’ospitalità zingara, fra i quali vi erano danze, carni allo spiedo, ma soprattutto tanto di quel liquore da far letteralmente impazzire i soldati asburgici. Ben presto gli ussari furono totalmente ubriachi e la festa si moltiplicò a dismisura in proporzione ai bicchieri di liquore che scorreva a fiume e cominciarono a nascere così i primi tafferugli, che poi si tramutarono in rissa, per poi passare agli spari veri e propri. Quando l’intera cavalleria asburgica giunse a Caransebes, trovò a tutti gli effetti un campo di battaglia, ma con soldati della stessa fazione che si uccidevano fra loro, una vera e propria apocalisse austroungarica. Nel tentativo di fermare quello scempio, la cavalleria appena giunta si gettò nella mischia urlando ai loro compatrioti un Halt, che però per un tragico equivoco, dovuto all’alcol che scorreva nelle vene dei soldati, fu recepito come un Allaha, scambiando così la cavalleria amica come una truppa ottomana travestita in divisa asburgica. Fu il caos: sulle rive fangose del Timis si combatté senza esclusione di colpi per un giorno intero ed il fuoco amico lasciò sul campo 9840 cadaveri.

Quando infine l’esercito turco giunse veramente a Caransebes pronto a battersi, si trovò accolto da un’inattesa quiete, forse il più imbarazzante silenzio che la storia militare abbia mai conosciuto. Anche questa volta, com’era già successo contro la flotta russa, l’impero ottomano vinse la battaglia senza sparare un solo colpo, alle grida di Allaha è grande.

 

Foto ritratto Giuseppe II d’Austria sotto licenza  Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported