Come avrete già capito dal titolo del post, oggi parleremo di un rito macabro e doloroso, ma reale.
Si tratta di un rituale noto come automummificazione.
In parole povere, una persona sceglie deliberatamente di preparare il proprio corpo in modo tale da preservarlo dopo la morte.
Era una pratica in voga soprattutto tra i monaci dell’Estremo Oriente, in particolare in Cina e in Giappone, ma se ne hanno testimonianze anche in certi culti indiani e sette ascetiche mediorentali.
Apparentemente sembra una vera e propria forma di suicidio, quindi per quale motivo lo facevano?
Molti di coloro che affrontavano questo cambiamento lo consideravano un atto spirituale, un modo per raggiungere l’immortalità.
I cadaveri mummificati infatti, erano venerati dalle rispettive sette di appartenenza, perché si pensava che fossero contenitori miracolosi in grado di conferire speciali poteri a coloro che li adoravano.
D’altronde questo non vale solo per i culti di terre lontane. Anche per i cattolici l’incorruttibilità di un cadavere è una delle prove della santità.
Ma come avveniva la mummificazione?
Il rituale variava di cultura in cultura, ma ci sono alcuni elementi comuni.
Per prima cosa, si trattava di un lungo processo che durava diversi anni.
Cominciava sempre con una dieta drastica che prevedeva esclusivamente noci, aghi di pino, bacche, cortecce d’albero ricche di resina e tè particolari, e infine ingoiavano pietre prima di essere tumulati vivi.
In Giappone, gli antichi praticanti di quest’arte, gli sokushinbutsu, letteralmente “Budda del proprio corpo”, chiamavano questa dieta mokujikyo, che vuol dire “mangiare gli alberi”.
Tutto ciò che ingerivano come poteva conservare un corpo dopo la morte?
Si ritiene che certe erbe, tossine e resine, se assunte regolarmente, possano avere un effetto antibatterico. Impediscono cioè la proliferazione dei batteri dopo il decesso, agendo di fatto come un liquido per imbalsamazione naturale.
Solitamente l’ultima parte di questo processo consisteva nel rinchiudersi in una camera sepolcrale provvista di una piccola apertura per l’aria.
I monaci giapponesi che si sottoponevano a questo rituale salmodiavano e suonavano una campanella fino a che non esalavano l’ultimo respiro.
A quel punto i confratelli all’esterno sigillavano la tomba, e la riaprivano tre anni dopo per verificare se la mummificazione era riuscita.
Se tutto era andato come previsto, affumicavano la mummia con dell’incenso per garantire ulteriormente la conservazione.
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