Afanasij Fet-Sensin, è un nome che ai più non dice assolutamente nulla, ma è stato un poeta, traduttore e scrittore russo dal talento mai pienamente riconosciuto dalla critica letteraria, ma considerato ed ammirato dai più grandi scrittori del suo tempo.

Ora, avete presente il vecchio detto popolare: “La fortuna è cieca…ma la sfiga ci vede bene”? Ecco, il protagonista del nostro post ne è la chiara certificazione, visto che la malasorte è stata una costante della sua esistenza. Afanasij Fet-Sensin, anzi inizialmente più semplicemente Afanasij Sensin, era figlio di un nobile ufficiale, e come tutti i discendenti di nobile famiglia, pregustava un futuro di rispetto sociale e agio economico, così come era stato per altri scrittori russi, come Tolstoj o Dostoevskij. Ma al giovane Afanasij non andò bene come sperava. Nel 1835 lui e i suoi genitori furono convocati in un pubblico ufficio per accertamenti, dove fu loro comunicato che c’era un piccolo problema: la loro famiglia non era legale, poiché il matrimonio dei genitori di Afanasij non era valido e quindi lui non poteva più essere considerato figlio di suo padre. Certo a noi ora la cosa può sembrare ridicola, uno stupidissimo errore burocratico, ma nella Russia di quel tempo per Afanasij ritrovatosi senza alcun titolo nobiliare, fu come ricevere una condanna all’ergastolo. Il ragazzo veniva a perdere di fatto ogni titolo e ogni diritto; non avrebbe potuto studiare a un certo livello, non avrebbe potuto frequentare circoli e signorine d’alto lignaggio, avrebbe dovuto rinunciare a tutto ciò a cui fino a prima di essere chiamato in quel pubblico ufficio aveva invece accesso. Prima di congedarli, il funzionario tentò comunque di rassicurarli dicendo che sarebbe stato sufficiente aprire una pratica ed attenderne l’esito. E così fu. Ma sapete quanto durò l’iter dei ricorsi e degli appelli per ridare ad Afanasij onori e cognome? Quarantuno anni. Nel frattempo fu costretto ad accontentarsi del cognome materno, Fet. Ma questo sfortunato episodio, fu solo il primo di una lunga serie. Anni dopo, si innamorò perdutamente di una ragazza, giurando che non l’avrebbe mai lasciata, ma nel 1845 Afanasij fu arruolato in cavalleria e partì in guerra. C’era da combattere in Crimea ma nonostante tutto, quella poteva essere un’occasione, perché per legge sul campo di battaglia poteva ottenere per meriti militari quello status che la burocrazia gli aveva tolto. Afanasij si buttò a capofitto in questa “avventura”, conscio che se fosse riuscito ad ottenere due medaglie con relativo avanzamento di grado, avrebbe ricevuto un titolo nobiliare. Quell’anno la Crimea non conobbe un militare più instancabile e dopo appena tre mesi Afanasij poteva vantare due medaglie sul petto e una divisa sfolgorante da ufficiale, pronto a tornare dalla sua amata con il tanto agognato blasone. Ma quando Afanasij Fet, decorato al valor militare, si presentò al generale per ottenere quello che gli spettava di diritto, il superiore gli rise in faccia. Appena una settimana prima la norma era stata riscritta; adesso il titolo nobiliare poteva essere concesso solo con quattro medaglie e il doppio innalzamento di grado. Afanasij a quel punto maledisse la sua sorte crudele, scrisse alla sua amata raccontandogli tutto e pregandola di avere ancora pazienza, e si gettò di nuovo a capofitto nel calderone della Crimea.

Diversi mesi dopo, con estrema cocciutaggine riuscì ad ottenere le quattro medaglie richieste e una splendida divisa da luogotenente e anche se ferito, si trascinò fasciato e claudicante al cospetto del generale. Quest’ultimo però aveva ancora brutte notizie per Afanasij: lo zar aveva cambiato ancora le carte in tavola, ora per ottenere un titolo nobiliare servivano sette medaglie e la carica di capo reggimento. A questo punto Afanasij fu preso dallo sconforto, si sentiva come un perseguitato dalla vita. Per quale motivo la sua strada era tutta curve e salite, mentre gli altri scendevano dritti in discesa? Dove aveva sbagliato, cosa doveva scontare? Nel 1850 decise di tornare fra le braccia della sua amata, identico a come era partito anni prima, e cioè senza denaro, senza titolo nobiliare, ed ufficialmente senza un padre. Ciò che non poteva immaginare è che nel frattempo anche la donna della sua vita gli era scivolata via dalle dita. E non per una malattia, il che sarebbe stato almeno più accettabile, contro di lui si era impegnato nuovamente il destino. Maria Lewich, così si chiamava la sua amata, era morta bruciata nel suo letto, per la scintilla di una lanterna che aveva infiammato la paglia. Per tutti gli anni che seguirono Afanasij visse con un misto di rabbia e di disperazione; qualunque cosa egli tentasse, una misteriosa legge si accaniva a sfilargliela, mostrandogli intorno la radiosa quiete di famiglie serene. Nel novembre del 1892, Afanasij Fet era ormai un anziano poeta di settant’anni, circondato da altri uomini di lettere tutti più acclamati e celebri di lui, anche se per loro stessa ammissione lo consideravano il loro lume e maestro. Ma la vita lo aveva reso ormai un essere incattivito e roso dal suo stesso interno e così, chiuso nella sua stessa camera, ormai stanco della situazione, decise di farla finita, afferrò un coltello e tentò di togliersi la vita. Ma anche questo proposito non gli riuscì: la lama non era abbastanza affilata, per cui ottenne solo dei tagli poco profondi. Chissà, forse pensò che per la prima volta il destino stava mostrandogli un segno d’amore…ma non era così. Se non era riuscita ad ucciderlo la lama, un attimo dopo fu il suo cuore a cedere per un infarto. E così finirono i giorni terribili di Afanasij Fet, un uomo a cui fu vietato esistere.

Da tutto questo, possiamo trarre una morale?

Forse si. Carl Sagan ha detto: “L’estinzione è la regola, è la sopravvivenza a costituire l’eccezione”. Quando la nostra vita, quando il mondo ci sembra un’emergenza infinita, a volte anche superare una giornata può essere una lotta. Facciamo collezione di cicatrici, promemoria fisici e psicologici di quello che abbiamo passato, o di chi e di cosa abbiamo perso. Ma forse quelle cicatrici possono fare qualcosa di più che ricordarci i vecchi traumi. Forse testimoniano il fatto che siamo ancora qui. Noi siamo l’eccezione. Noi siamo i sopravvissuti…e andiamo avanti.