Come sempre accade nei nostri post, cerchiamo di affrontare un’argomento trovando un taglio narrativo originale. Permetteteci quindi di offrirvi una prospettiva che racconti un Dante Alighieri completamente inedito, un Dante che raramente viene affrontato nei libri o nei saggi.

Vogliamo parlarvi del giovane Dante; cosa questa che ci permette di esplorare una dimensione avventurosa del più grande poeta della storia, anche perché negli anni della giovinezza del sommo poeta emerge con prepotenza tutta la selvaggia crudeltà del Medioevo fiorentino, sbranato dalle faide tra guelfi (sostenitori del papa) e ghibellini (sostenitori dell’impero, contro il papato). E poi in questo stesso periodo c’è stata la battaglia di Campaldino che tanta parte ebbe nella vita di Dante

(lui feditore di prima linea si trovò ad affrontare questa battaglia sanguinaria), non vi è dubbio infatti che le visioni apocalittiche di questo conflitto abbiano avuto una parte importante nel concepimento stesso della Divina Commedia.

In sintesi, tutto ebbe inizio con Corso Donati, uno dei principali esponenti politici della Firenze del XIII secolo. Detto “il barone” per la fierezza dei suoi modi, Corso era un uomo dai tratti marcati che lo facevano immediatamente percepire come un guerriero ancor prima che egli dimostrasse il proprio valore. La sua fama di uomo feroce e avido faceva il resto. A questa sua figura marziale, facevano da ideale contraltare i modi da smargiasso, quella sua maniera di parlare insultando nel momento esatto in cui pronunciava verbo. Ora, è bene sottolineare che ci fu un momento in cui Corso (a capo della fazione dei guelfi) credeva di aver finalmente annientato i ghibellini, addirittura umiliandoli, quando in realtà i suoi nemici stavano solo preparando lo sterminio della controparte. Il 26 giugno del 1288 infatti, nella battaglia di Pieve al Toppo i ghibellini massacrarono i guelfi inseguendoli fin nei meandri delle paludi, spezzando loro il collo e squarciando la gola a non meno di trecento cavalieri. Corso Donati però non aveva nessuna intenzione di consegnare la città di Firenze, i suoi poderi e quelli dei suoi alleati alla fazione avversa, perché se solo si fosse mostrato debole e inerte quelli che lui definiva servi dell’impero si sarebbero presi non soltanto Firenze e le sue campagne, ma anche le loro case, le loro donne e tutto ciò che gli appartenevano. Quello che voleva a questo punto era una guerra, e così diede ordine di affilare le lame delle spade e tirare fuori i coltelli perché avrebbe portato la morte prima che questa giungesse a Firenze. Corso Donati e i suoi uomini (compreso Dante) marciarono fino a Laterina dove l’Arno divideva la pianura su cui i due eserciti si sarebbero dovuti fronteggiare. I ghibellini però non sembravano intenzionati a guadare il fiume. I fanti battevano le spade sugli scudi, i feditori facevano scalpitare i loro cavalli da guerra, apparentemente pronti a gettarsi sul nemico per caricarlo, e c’era movimento nelle file dei balestrieri, ma malgrado quell’evidente impazienza nulla lasciava presagire che i ghibellini avrebbero attraversato il corso del fiume. Fu una guerra di sguardi, un’attesa lunga e volta a stabilire chi avrebbe ceduto per primo, fino a quando i cavalieri della prima linea ghibellina non fecero girare i propri destrieri seguiti da balestrieri e fanteria, tornando da dov’erano venuti. Non ci sarebbe stata nessuna battaglia insomma, perché i ghibellini avevano deciso di ritirarsi. I guelfi rimasero interdetti da quella decisione, ma Corso Donati diede l’ordine ai suoi uomini di rimanere in formazione su quella sponda dell’Arno fino al tramonto e solo allora, se i nemici non fossero tornati, avrebbero rotto le righe. Nel frattempo avrebbe mandato degli esploratori in avanscoperta perché non voleva cadere in imboscate durante il ritorno da Laterina. Rientrati dalle perlustrazioni gli esploratori avevano riportato notizie agghiaccianti: mentre l’esercito fiorentino di Corso Donati era stato tenuto impegnato sulle sponde dell’Arno, i ghibellini ne avevano approfittato e con un certo numero di soldati erano penetrati fin quasi alle porte di Firenze, incendiando e devastando i villaggi di Pontassieve e Compiobbi. Appresa la notizia, il capo dei guelfi aveva deciso di dividere l’esercito. Una parte sarebbe immediatamente rientrata a Firenze e un’altra si sarebbe diretta verso Compiobbi per affrontare e cacciare eventuali bande ghibelline che si fossero trovate ancora sul posto. Dante faceva parte di quest’ultima schiera e appena arrivato in vista delle mura del borgo capì che non avrebbe trovato nessuno ad aspettarli. C’erano solo corpi straziati, addossati ai muri delle case e l’odore ferroso del sangue. Avrebbe voluto essere cieco per non vedere quello che un pò alla volta si rivelava ai suoi occhi: la guerra in tutta la sua cruda verità, nell’orrore primordiale della violenza cieca, un’inferno in terra. Non c’era niente di nobile e onorevole in tutto quello. I ghibellini avevano dimostrato di aver capito qualcosa che ai guelfi ancora sfuggiva: le battaglie campali erano insidiose e comportavano grandi perdite, anche quando si aveva la fortuna di vincerle. Invece un’imboscata o un’incursione a sorpresa generavano paura e timore e il nemico facendosi meno sicuro era più propenso ad accettare negoziati. Lo stesso si poteva dire per un bell’assedio: nessuno ci rimetteva la vita, ma si guadagnavano ostaggi e si riducevano le scorte di viveri degli avversari. A questo punto Firenze non poteva più rimanere a guardare e si decise così di muovere un intero esercito verso Arezzo, la controparte ghibellina. Ma per sorprendere i nemici, i guelfi invece di passare per la Valdarno

scelsero la strada più difficile: il Casentino.

I ghibellini vennero comunque a sapere della scelta azzardata dei fiorentini e decisero così di muoversi e occupare la piana di Campaldino. Cavalieri e fanti si disposero di fronte al Castello di Poppi, in modo da avere la possibilità di rifugiarsi all’interno nel caso in cui avessero rischiato di rimanere sconfitti sul campo.

Dietro di loro si trovava anche la via che conduceva al monastero di Camaldoli e da lì al valico verso le Romagne, da dove avrebbero potuto ricevere facilmente rinforzi. Non si poteva dire che non l’avessero pensata bene. Ma c’era dell’altro. I ghibellini avevano riempito di terra i canali che attraversavano la piana e livellato il terreno in modo da facilitare le manovre della propria armata. Era evidente che questa volta non si sarebbero sottratti al confronto, tanto più perché avevano confinato i guelfi nel punto meno agevole del campo di battaglia maturando così un vantaggio in partenza. D’altra parte era anche del tutto chiaro che le loro forze in campo erano in notevole difetto rispetto a quelle guelfe, specie per quel che riguardava il numero di cavalieri; la cavalleria guelfa infatti poteva contare su un numero quasi doppio di uomini. Insomma, nonostante tutto in quella parte d’Italia sembrava germinasse giorno dopo giorno un odio che travolgeva in scontri fratricidi gli uomini delle città di Firenze, Siena, Pisa, Volterra, Lucca Arezzo e Pistoia. Il perché era un mistero ma anche una verità crudele e inoppugnabile. Era una faida atavica che dilaniava quella terra fin da quando se ne avesse memoria. Era la crudele idiozia del genere umano, un meccanismo di odio e depravazione talmente ben oliato da diventare un gigantesco tributo di sangue. La strategia messa in atto dai ghibellini stavolta era a dir poco folle se non addirittura suicida, ma era vista anche come l’unica possibilità che avevano per vincere. Avevano scelto dodici fra i loro cavalieri più valenti e decisero di lanciarli contro la prima linea guelfa. L’idea era quella di attrarre il primo nucleo di cavalleria verso la seconda linea ghibellina. Era una carica disperata, un modo temerario per snidare la preda, attrarla fuori dal proprio schieramento e fare in modo che una parte di cavalleria, inseguendo i superstiti respinti di quel primo attacco, si riversasse sulla piana verso l’esercito ghibellino. Quel piano però era destinato a fallire miseramente. I guelfi infatti non spezzarono interamente le loro linee e non respinsero i dodici cavalieri che dovevano fare da esca ma si limitarono a combatterli e a parare i loro colpi. Esaltati dal successo di quella carica il resto della cavalleria ghibellina caricò a sua volta, ottenendo però un risultato contrario a quello sperato. Invece di avere la propria fanteria vicina (sfruttando i dodici cavalieri come esca e portando così la cavalleria guelfa verso lo schieramento ghibellino) i ghibellini si erano ritrovati intrappolati dall’esercito guelfo il quale, dopo aver resistito all’assalto si stava richiudendo attorno ai cavalieri nemici, isolandoli dai fanti ghibellini troppo distanti per intervenire efficacemente. Insomma, con una mossa troppo avventata, i ghibellini si erano messi in trappola da soli e cominciarono a cadere come mosche sotto i colpi dei guelfi. La prima carica ghibellina aveva spezzato in due la linea guelfa. Erano solo dodici cavalieri ma sembravano cento che avanzavano impalando i nemici con le lance, scalzandoli dalle selle e scagliandoli nella piana come proiettili di carne. Quello che accadde subito dopo però fu un massacro; guelfi e ghibellini erano immersi in un fiume di sangue e ovunque si volgesse lo sguardo si vedevano solo corpi martoriati, ventri squarciati e arti mozzati.

Dante era sopravvissuto all’orrore di Campaldino e della guerra, ma non era tornato integro, non del tutto perlomeno. Qualcosa in lui sembrava essersi rotto per sempre, dopo aver visto il sangue e lo scempio, l’orrore delle vite spezzate in quel modo violento, tribale, disumano, aveva percepito un cambiamento rispetto al quale non riusciva ad avere alcun controllo. Insomma possiamo concludere affermando che a dispetto della grandezza assoluta che lo accompagnerà, Dante inizialmente non era altro che un giovane, figlio della piccola nobiltà, che tenta di trovare un posto nella Firenze divisa fra Cerchi e Donati e per raggiungere una sua collocazione e un ruolo, egli affronta Campaldino come rito di sopravvivenza e di passaggio. Dante, come abbiamo già detto, non sarà più lo stesso dopo quella battaglia e non potrebbe che essere così, dal momento che fu una delle più sanguinose del Medioevo. Ma è anche vero che diverrà un principe della poesia, un cantore che saprà conquistarsi la gloria e gli allori dell’arte. Sarà un poeta guerriero, costretto dall’odio e dai rancori della sua città a impugnare la penna e la spada insieme, a scrivere con l’inchiostro e con il sangue la storia delle umane genti.

 

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Foto diorama battaglia di Campaldino di sailko sotto licenza  Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported

Foto Divina Commedia di Fivedit sotto licenza  Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International

Foto Castello di Poppi visto dalla piana di Campaldino di PROPOLI87 sotto licenza  Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International